L’obbligo della scuola

Scritto da il 16 Luglio 2020

Mi sono chiesto tante volte quale sia l’obbligo della scuola nella scuola dell’obbligo. La sua formulazione istituzionale è avvenuta quando è stato eliminato l’obbligo del servizio militare. Quasi un passaggio di consegna, che farebbe pensare ad un esercito diverso, se non fosse che il confine è diventato interno, non più geografico, ma sociale. Non è mancato poi l’affermarsi dell’espressione “presidio” assegnata al “distretto” scolastico. L’obbligo ha però un doppio fondo di significato. “Obbligato” è l’“essere grato”, la memoria di un gesto di gratitudine ricevuto. Obbligo è anche riconoscenza e dedizione. In comune i significati hanno il dovere, come legame che viene da imposizione e da un dono, che si escludono, l’uno come giuridico l’altro come morale, l’uno costrittivo l’altro libero, quando l’obbligo è personale. I confini della città sono interni. Una città arriva fin dove la voce ha parola, quando si spegne in un grido o resta attonita, la città finisce. Può finire in strada come in una casa, finisce dove la solitudine perde il colore del sentimento e diventa isolamento, reclusione, oppressione, deragliamento. L’obbligo è dare parola alla voce perché ritrovi il suono dell’espressione dell’anima., perché l’anima è la voce.

È allora il tempo che si apprende a scuola. Quello interiore congiunto alla storia, propria e comune. Fluttua, scivola, ritorna, passa e giace a fondo. Rimane. Uno spazio diventa luogo col tempo. Senza, è solo uno spazio. Vuoto. Si dice poi “vano” il tempo disperso e sprecato. Il lock down ci ha messo di fronte al vano e al vuoto, in un tempo sospeso di uno spazio senza luogo. La forza di gravità del nulla, lo sentiamo, è ancora più grave della forza di gravità della materia. Leopardi diceva “solido nulla”.

Ci siamo ritrovati così senza senso, senza direzione, nella quotidianità come in politica senza certezze, anche la scienza si è dichiarata incerta a rassicurare i tempi di passaggio, perché è proprio il tempo che sembra aver perduto la proprietà del passare e del cambiare. Ripensando a quel “non ho tempo” ripetuto tante volte prima, si comprende che era per sfuggire al luogo del presente, non si era da nessuna parte, dislocati in se stessi, come Freud diceva dell’io che non è padrone a casa propria.

La scuola ci spinge a riflettere sullo spazio del tempo e al “dare luogo” e “aver luogo” come anche al “mettere in essere”. Parlando diamo luogo all’essere che pensiamo. Il luogo si racconto. Si dice anche “luogo letterario” o “passo”. Ciò che non si dice che è nemmeno si può dire che non esiste.  È allora la parola, quel che ci diciamo il nostro starci accanto. È subito chiaro che la questione degli spazi non è senza la questione del tempo della scuola. Tenerli separati è rendere vuoto lo spazio e vano il tempo, senza dar luogo alla scuola. Non sarà allora la misura in metri da “bocca a bocca”, come recita il CTS dal MIUR che contrasta l’emergenza COVID, è invece quello che diciamo voce a voce che da senso al tempo che si apprende.

Mi sono chiesto tante volte quale sia l’obbligo della scuola dell’obbligo, per scoprire che è la cura del tempo. Con Hegel si potrebbe dire che la scuola è il luogo dove si apprende il proprio tempo con il pensiero. Sulla scena dell’aula qualcuno, più avanti negli anni, ha difronte chi è più giovane. Un ragazzo e una ragazza di un’altra generazione. La relazione insegnante non è senza un tale scarto, si svolge in una differenza di genere e di generazioni. La relazione insegnante è generativa. A scuola ci si passa il tempo. Insegnare è dare il proprio tempo come propriamente dell’altro che l’apprende. Ed è un tempo senza date, carsico, perché corre al fondo della storia del sapere. Sa di sé. È proprio. È il tempo sul quale misuriamo il nostro cammino formativo, i percorsi, i fini, gli obiettivi. Il tempo si apprende passandolo. Si passa. E la parola più in uso a scuola è questa. La scuola è luogo del passaggio, dalla casa alla città, dalla famiglia alla società, da un’età ad un’altra del proprio percorso di vita.

La storia della distanza è la stessa dell’interiorità. La misura della sicurezza incrocia quella del riguardarsi e del rispetto dell’altro. È nella distanza che avvertiamo quello che ci è più caro e che sentiamo più vicino. La distanza è una misura, la lontananza è un sentimento. L’una si misura a “vista” quella interiore si misura in “visione”. L’una ha figura, l’altra è idea. In questa lotta serrata contro l’epidemia si combatte anche contro il male della comunicazione distratta, del sondaggio istantaneo, del sospetto nemico, delle barriere e dell’egoismo di una società senza comunità, perché senza interiorità, esteriore, di un fuori senza apertura. Basta poco a capire che il fuori non è l’aperto.

La svolta tecnologica, ancora più esaltata dall’emergenza epidemica, impegna a riflettere sulla dimensione relativa del tempo e dello spazio ridotto a schermo con la cosiddetta DAD. Che cosa allora significa apprendere, se la conoscenza non mette capo a una visione? Che cosa significa processo di apprendimento se manca la linearità del suo percorso? Già quel long life learning di qualche anno portava la formazione alla formattazione, valeva la prestazione per la quale knowledge diventava knowhow, la conoscenza cedeva alla competenza. La condizione da “singol” che vi corrisponde non è più solo status sociale. La “fragilità” è esistenziale quanto sociale. Indica la condizione di “essere fra” senza passaggi, per fratture e connessioni, istantanee. L’ordine del tempo è come lo descrivono i fisici quantistici quando ripetono che manca ormai una visione del mondo, manca una teoria generale, perché il mondo è granulare, indeterminato, interferente.

Il progresso tecnologico riguarda trasmissioni e comunicazione, spostamenti e trasferimenti che sono sempre più rapidi. L’abbattimento del tempo è pari all’abbattimento delle distanze, eppure chiamiamo didattica a distanza quella che ci permette di arrivare nelle case delle persone con le quali comunichiamo. Ci manca il toccare. Ed è qui che il tempo ha luogo. C’è un momento in cui si impara a imparare. È nei primi anni di scuola, quando la maestra spiega la differenza dei nomi astratti e concreti. Dice che concrete sono i nomi delle cose che si toccano e astratte sono le cose che non si toccano. Un bambino tocca tutto. Tocca per conoscere, per fare proprio. Quando si fa grande capisce un’altra distinzione quella fra le cose certe e quelle vere. Quelle certe si toccano, quelle vere, ci toccano. Le une sono nello spazio, le altre arrivano dentro nel luogo interiore, nel proprio tempo. Quella distinzione fra astratto e concreto è piuttosto per spiegare la propria privata, quello che di te lo puoi toccare, non però quello di altri. Quando mi chiedono dei corsi in carcere, rispondo che ci tocchiamo, parliamo di cose che ci toccano e dentro il tempo cambia come il vento la direzione che per ognuno è il respiro.

Dobbiamo riflette su questa “nuova vicinanza” e sul nostro starci accanto nella condizione di fragilità sociale quanto esistenziale dell’essere/fra, in una condizione fisica granulare, indeterminata e interferente. È il nostro starci accanto che bisogna apprendere anche a insegnare, perché nell’essere fra della fragilità si apprende il legame esistenziale e sociale fra la vita che si è come viventi e la vita che si ha come esistenti. L’una impropria, come è di ogni vivente, l’altra propria come è di ogni esistenza. Tenere insieme il proprio e l’improprio è avere cura del comune. Mai come in questo momento la scuola è più vicina all’esigenza di apprendere una società comune di comunità sociali differenti.

Non si possono cercare nuovi spazi o allargarli, riducendo il tempo. Il rischio è sovrapporre l’emergenza all’esigenza. Un rischio che viene dall’uso feticistico della tecnologia, che riduce il docente a facilitatore, mentre che dovrebbe essere invece, com’è, generatore. Insegnare è dare il proprio tempo come propriamente dell’altro che lo fa suo. La scuola è il suo tempo. La storia della scuola in ogni esperienza che ha portato a una svolta della relazione insegnante è sempre il tempo dedicato ad essere stato richiamato perché fosse “pieno”. La scuola ha subito danni di riforma, insieme alla sanità, con la riduzione del tempo e dei docenti, con classi “numerose”.

Il disagio riguarda la città. La scuola ha certo bisogno di un suo luogo, non però come presidio di confine, ma come centro di “virtù e conoscenza” legato ai luoghi della città come alle case, alle fabbriche, all’amministrazione … si ricorda sempre Pericle che diceva a proprio orgoglio di aver fatto della città una scuola, una “paideia”, diceva, una comunità educativa. La DAD ha la sua necessità, non può essere di emergenza, deve far parte dell’esigenza, del tempo della scuola. La tecnologia non può però essere ridotta a feticismo né il docente diventare il facilitatore. Il docente è generatore. La facilità del fare non è la felicità dell’operare.

Pino Ferraro

Foto: Lalupa/Wikipedia


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