Scuola cattiva maestra

Scritto da il 22 Marzo 2021

La Scuola non è riuscita a tesaurizzare le conquiste del passato, quel patrimonio di conoscenze ed esperienze accumulato da quando la pedagogia, schierandosi finalmente dalla parte dei discenti e svelando i limiti di una trasmissione nozionistica dei saperi, ha cominciato a riflettere su se stessa e ha immaginato modi di fare scuola non legati a un banco o a un programma o a un libro . In controtendenza rispetto a quanto avviene in quasi ogni altro settore professionale, e rinnegando quella che avrebbe dovuto essere la sua vocazione caratterizzante, la scuola non è riuscita a strutturarsi in modo affidabile come luogo di conoscenza viva da trasmettere in modo vivo.

Quella che avrebbe dovuto diventare una scoppiettante agenzia culturale e di ricerca, è rimasta sorda e cieca ai vari manifesti innovativi comparsi via via sulla sua strada, e oggi non è tanto, o non è solo, “ un ospedale che accoglie i sani e respinge i malati ”, ma è un ospedale in cui bambini e ragazzi entrano sani (curiosi e desiderosi di aprirsi alla conoscenza) e escono malati (stanchi e annoiati). Se l’antropocentrismo, ponendo l’uomo al centro dell’Universo, ha di fatto collocato l’uomo in una prospettiva di dominio nei confronti delle altre forme di vita e di non vita, la tendenza degli adulti a considerarsi il fine verso cui l’infanzia deve tendere ha trasformato l’accudimento e l’educazione in forme più velate ma non meno pericolose di controllo sulle generazioni in arrivo.

La sottovalutazione dell’infanzia e il disvalore generalmente attribuito agli anni che vengono prima rispetto a quelli che vengono dopo (per cui i primi cominciano a acquisire dignità solo nel momento in cui palesano quei “passaggi evolutivi” che li fanno rassomigliare ai secondi) sono all’origine della marginalità culturale in cui vengono tenuti i minori. E’ tutt’ora imperante un’interpretazione miope del ruolo della scuola secondo la quale essa sarebbe chiamata a preparare le nuove generazioni all’ingresso nel mondo della vita, o, peggio ancora, all’ordine di scuola successivo.

L’idea è che la scuola sia sempre propedeutica rispetto ad altro, e mai esperienza in sé. Dewey con il suo “ la scuola è vita e non preparazione alla vita ” evidentemente delirava. L’eredità di Dewey si ferma sull’austera soglia delle Università, e il suo Credo Pedagogico, tanto​ asciutto quanto dirompente, ha il triste primato di essere il testo più citato e il meno seguito. Cosa rispondere a una professoressa di quarant’anni che chiede a noi della primaria “ per favore di non stare troppo larghi nei giudizi e di fare qualcosa per abituare i bambini ai sette perché altrimenti quando arrivano alle medie piangono? ”

Questo atteggiamento è emblematico e nasce dalla credenza che la scuola precedente debba preparare alla scuola successiva, per cui gli asili devono guardare alla materna (e guai se non preparano a una compiuta uscita dall’egoistico sé!), le materne alla primaria (e guai se non preparano alla cura dell’astuccio, all’abitudine a star seduti a un banco e all’arte amanuense del pregrafismo), la primaria alla secondaria (con i famigerati metodi di studio) e così via. A minare quella libertà che sola può cambiare le cose, è una concezione ancora fortemente utilitaristica che abbiamo del tempo e dell’infanzia, il credere cioè che si debba finalizzare ogni istante del tempo presente alle incombenze del tempo futuro, in un crescendo di aspettative ingiustificate, premature e ansiogene. Ogni processo educativo si è fatto tecnico e orientato a uno scopo, ingranaggio di una macchina che non esiste. La scuola che insegue la vita o, peggio, l’ordine scolastico successivo, è un feticcio, un’operazione nefasta che sfalsa il principio, valevole in ogni età per una vita felice, del carpe diem.

di Giuseppe Giacalone

Foto di Trixie Liko da Pixabay 


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