INVALSI: la valutazione del sistema

Scritto da il 16 Maggio 2021

Si sono appena concluse le prove nazionali INVALSI, dopo la pausa del 2020: come è noto, lo scorso anno le prove non vennero effettuate a causa dell’emergenza sanitaria. Nonostante le ricorrenti polemiche circa la validità di questi test, occorre ribadire che essi sono una realtà imprescindibile. La storia dell’INVALSI, anzi, è connaturata con la stessa idea di autonomia scolastica e ha origine negli anni ‘90 del secolo scorso.

Nel 1997, con l’art. 21 della legge 59, nasceva infatti l’idea di autonomia (regolamentata poi con il DPR 275/1999); dal momento che essa si esercita nel rispetto di standard qualitativi nazionali ed è tesa al successo formativo, l’altra faccia della medaglia è la valutazione del sistema. A ogni forma di autogoverno deve corrispondere un impianto di responsabilità in base al quale si rende conto dei risultati raggiunti e questi esiti devono poter essere verificati da un soggetto terzo. Non è un principio valido solo a scuola: in tutta la Pubblica Amministrazione, a partire dagli anni ‘90 e in virtù del principio di sussidiarietà introdotto anche in Costituzione, si diffonde il concetto della rendicontazione dei risultati conseguiti. Benché le prove Invalsi non si inseriscano propriamente nell’iter della rendicontazione sociale, giacché anzi ai sensi del DPR 80/2013 la rendicontazione in sé è l’ultima fase della valutazione, si può affermare che il principio a esse sotteso è quello del controllo, a livello governativo, del funzionamento generale dell’organizzazione. Purtroppo spesso tale controllo, assolutamente legittimo anche in linea di principio, è male interpretato e scambiato per meccanismo sanzionatorio: ma valutare non significa giudicare e nemmeno classificare, bensì assegnare un valore, cioè comprendere le caratteristiche di un processo (in questo caso quello educativo) per evidenziarne i punti di forza e le criticità.

Ed è qui che sta il valore delle prove nazionali: esse servono a comprendere dove il sistema funziona e dove ha bisogno di interventi: rappresenta pertanto uno strumento fondamentale per i decisori politici e per la comunità scolastica tutta (docenti, studenti, personale amministrativo incluso quello con qualifica dirigenziale). Grazie alle prove nazionali, in questi anni abbiamo potuto dimostrare ciò che prima era solo intuibile, cioè che esistono notevoli differenze negli esiti scolastici tra i territori, tra i generi, tra gli ordini scolastici e – a livello di singola istituzione scolastica – tra le classi. Sono tutte questioni ineludibili, che vanno affrontate se si ha a cuore il miglioramento della scuola: ma per sapere dove intervenire, prima occorre conoscere dove si incontrano i problemi e si devono poter applicare le soluzioni che altrove hanno dato prova di funzionare. 

Non è un caso quindi che sistemi di valutazione degli esiti scolastici esistano in tutta Europa, non solo in Italia. Alcuni paesi effettuano addirittura prove nazionali ogni anno, per ciascun grado scolastico, per esempio la Danimarca, Malta e la Scozia.

Fatta questa premessa, occorre registrare che ogni anno i sindacati di base organizzano puntualmente scioperi in occasione delle prove INVALSI, ormai limitati alla scuola primaria: e questo è uno snodo fondamentale del discorso. Si riscontra che nel secondo ciclo e nella scuola secondaria di I grado le prove nazionali sono accettate dalla grande maggioranza del corpo docente; nella scuola primaria, invece, sono tuttora presenti sacche di conservazione che ostacolano in vario modo il regolare svolgimento delle prove e a nulla vale che esse siano ormai assunte, in base al d. lgs. 62/2017, ad attività ordinaria di Istituto, dunque dovuta in quanto inserita nella comune funzione docente.

Quali sono le motivazioni di questa ostilità residua? Esse sono sia di ordine sindacale sia di impianto ideologico e si compenetrano. Le prove infatti, sostengono alcuni docenti, implicano un aggravio notevole di lavoro per la correzione e questo tempo aggiuntivo andrebbe retribuito a parte invece che considerato attività ordinaria. Prevale insomma una concezione impiegatizia e non professionale della funzione docente, che pretende di quantificare al massimo livello il grado di lavoro dispediato nella prestazione. A parte la considerazione che come si correggono le “comuni” verifiche si possono e si devono correggere anche le prove nazionali, proprio in quanto attività ordinaria (e nessuno si sognerebbe di essere pagato extra per correggere le verifiche che somministra ordinariamente), dovrebbe prevalere la considerazione che il docente presta un lavoro intellettuale in base al quale il compenso è, in certo modo, forfettario e slegato, in una certa misura, da una definizione concreta e puntuale. Come quantificare, per esempio, il tempo dedicato alla preparazione delle lezioni, che è così soggettivo? Si può definire con precisione la misura della propria attività lavorativa al di là della lezione frontale? Per le professioni intellettuali non è così semplice, né meccanico, definire il quantum di impegno necessario. In molti paesi europei questo problema viene (parzialmente) risolto definendo nel contratto un monte ore settimanale che i docenti devono dedicare alle attività non di insegnamento in senso stretto. Sono anzi solamente sei i paesi UE, tra cui l’Italia, i quali nel contratto definiscono esclusivamente le ore di insegnamento: l’ordinarietà, in Europa, è enumerare nel contratto anche un monte ore di presenza a scuola al di là dell’impegno in classe, allo scopo di individuare una prestazione complessiva dovuta tra attività di sostituzione, preparazione, valutazione/correzione, amministrativa, di potenziamento dell’offerta ecc. In tal modo, in Austria, Olanda, Ungheria, Germania, Croazia e Repubblica Ceca si arriva a 40 ore settimanali di servizio di cui solo 18-20, in media, di docenza; in Spagna sono 38, in Francia 35, in nessun caso si scende sotto le 30. Nel prossimo contratto nazionale questa potrebbe essere una soluzione utile al tema della correzione delle prove INVALSI e di altri problemi che non è il caso di trattare in questa sede. Se il cambiamento fosse accompagnato da un significativo adeguamento di retribuzione agli standard europei, non dovrebbe incontrare molta resistenza. In ogni caso, delle due l’una: se si accoglie una visione impiegatizia della funzione docente allora occorre quantificare nel contratto l’impegno complessivo, al di là delle ore di docenza; se invece si accetta la visione del professionista, occorre comprendere che un docente, alla pari di un odontoiatra, di un avvocato, di un giornalista, lavora per obiettivi dunque quantificare esattamente l’impegno non solo è poco praticabile, ma anche poco pertinente.

Va rilevato, peraltro, che nella scuola secondaria l’opposizione alle prove nazionali è di fatto cessata nel momento in cui i test sono diventati computer based; in tal modo la correzione non è più in capo al docente, che è incaricato solo di somministrare la prova e di sorvegliarne il regolare svolgimento. In assenza di interventi contrattuali, questa strada potrebbe essere utile anche nella scuola primaria, magari appoggiando lo svolgimento ai laboratori informatici presenti nella scuola secondaria del comprensivo. Se le prove venissero informatizzate, potrebbero altresì essere effettuate entro una finestra e in base a un calendario definito di un ventaglio di date, in modo da vanificare e rendere improponibili eventuali azioni di disturbo. Per la secondaria questo connubio di prove informatizzate e sparpagliate in un range di date definito tra INVALSI e autonomia scolastica ha sostanzialmente reso regolare lo svolgimento ovunque.

Le motivazioni ideologiche sono più sottili e sono legate alla diffusa ostilità rivolta alla cultura della valutazione, di cui anche il tramonto del c. d. “bonus docente” è testimone; nonostante lo scopo di INVALSI non sia quello di redigere classifiche tra scuole virtuose e non, le prove nazionali vengono percepite come un tentativo di individuare “fasce di livello” sia tra le scuole sia, all’interno delle stesse, tra le classi e tra i docenti. La scuola primaria italiana possiede, in generale, una tradizione organizzativa e pedagogica fortemente “comunitaria”; detto altrimenti, se a mano a mano che si sale di grado il processo di insegnamento si individualizza e il docente è vieppiù una monade educativa piuttosto indipendente, nella scuola primaria i raffronti tra maestre, classi, interclassi e plessi sono talora percepiti come una leva per minare la visione identitaria collettiva. A questo c’è soluzione solo nel medio-lungo termine, puntando sulla qualità della selezione in ingresso e della formazione in itinere, ma a onor del vero va anche detto che il legislatore dovrebbe sgombrare il campo da diversi equivoci: intanto dovrebbe essere accantonata ogni ipotesi di finanziamento legata all’andamento dei test, a meno di non invertirla ovvero di assegnare più risorse proprio dove gli esiti sono inferiori alla media nazionale; quando poi si legge, nella bozza del PNRR, di formazione obbligatoria per i docenti con risultati critici nei test INVALSI, vuol dire che non si è ben compreso cosa siano le prove nazionali e a cosa servano; che non si è consapevoli del fatto che i contesti socioculturali hanno la meglio sulle prassi educative; che la formazione è già obbligatoria e non può assumere un connotato “punitivo”, ma semmai dovrebbe essere quantificata – anche qui – nel contratto con un monte minimo orario annuale, inteso come investimento continuo sulla professionalità di tutto il personale docente.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 


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