Identità di genere e autodeterminazione: la necessità di una rivoluzione sociale e linguistica

Scritto da il 29 Novembre 2020

Il percorso che va dalla nascita all’autodeterminazione di sé è indubbiamente complesso, e può essere influenzato da vari fattori, che intervengono durante la crescita. L’educazione ricevuta in ambito familiare, quella ricevuta in ambito scolastico e le relazioni sociali ne costituiscono esempi fondamentali che seppur in maniera diversa, hanno un notevole impatto sul singolo individuo. Pur riconoscendo i progressi fatti negli ultimi tempi, venire al mondo a cavallo fra il secondo ed il terzo decennio degli anni duemila significa nella gran parte dei casi ricevere un’educazione di stampo ormai vecchio, che ci porta ad introiettare una cultura permeata dagli stereotipi di genere, dal pregiudizio e che tende ad escludere le identità fuori norma.

Fin da piccoli infatti, si viene messi a confronto con modelli ideali di perfezione, spesso incarnati da uomini e donne bianchi, eterosessuali, cisgender, in forma e dotati di un gran senso del pudore. Da ciò deriva, inevitabilmente, un modo edulcorato di percepire la realtà, che esclude a priori le diversità da un mondo che è costruito su misura per una classe elitaria quasi irraggiungibile. Il gap di fondo di questa ormai obsoleta ideologia consiste nel fatto che quasi nessuno incarna a pieno gli ideali alla base della società, ma purtroppo lo si comprende tardi ed in alcuni casi in maniera quasi completamente autonoma. Questo avviene perché i principali responsabili dell’educazione del singolo (familiari di età adulta ed insegnanti) sono figli di generazioni di stampo ben più vecchio, cresciuti ispirandosi agli stessi modelli, e che vedono quindi una realtà costruita ad hoc per pochi come unica prospettiva, senza tener conto che a qualcuno possa stare stretta.

In questo panorama poco inclusivo, gli omosessuali ad esempio, costituiscono una nicchia che, seppur riconosciuta, viene considerata fuori norma. Non è invece il caso di altri membri della comunità LGBT+, come le identità non-binary di cui molti ignorano l’esistenza, oppure in casi estremi non la concepiscono. Partendo con ordine, alla nascita, il sesso biologico di un individuo viene determinato dai propri cromosomi sessuali: XX per il sesso femminile e XY per il sesso maschile; nel caso in cui un individuo ha caratteri sessuali e/o primari non esclusivamente maschili o femminili si parla di intersessualità. Invece l’identità di genere indica il senso di appartenenza di una persona ad un determinato genere, che può corrispondere o meno al sesso biologico: nel primo caso si parla di individui cisgender (che si identificano con il proprio sesso biologico) e nel secondo caso di individui transgender (che non si identificano con il proprio sesso biologico). Con il termine non-binary, vengono inoltre indicate le identità di genere che non corrispondono alla definizione binaria, quindi coloro che non si identificano in un genere preciso; possono quindi non identificarsi in nessuno (si parla di agender) oppure identificarsi in entrambi (gender fluid).

Il problema della lingua italiana riguardo il binarismo di genere, è deriva dall’impossibilità de facto di riferirsi a persone non-binary senza l’uso di sostantivi, aggettivi e/o pronomi che non siano esclusivamente maschili o femminili. Inoltre nel caso in cui parlando, ci si riferisca a moltitudini, viene utilizzato il maschile sovraesteso o generalizzato; ad esempio, quando ci si riferisce ad un gruppo di sole ragazze si può usare l’aggettivo “tutte”, ma se fra loro c’è anche un solo ragazzo si usa l’aggettivo “tutti”.

Fra le soluzioni ipotizzate ci sono: l’utilizzo della lettera -u come desinenza neutra, dell’asterisco (*), e dello schwa (ə). Il problema riguardo l’uso della -u è costituito dalla presenza della desinenza nel dialetto salentino, dove però è adottata per aggettivi e sostantivi maschili. L’asterisco invece, pur essendo una valida alternativa nella lingua parlata, nello scritto non lo è poiché è già impiegato per altri scopi, come ad esempio la segnalazione di eventuali note a piè di pagina o l’omissione di un dato all’interno di un testo. Lo schwa (o scevà) infine, è un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA) che corrisponde ad una -e rovesciata ed ha suono neutro. Questo suono esiste già in alcuni dialetti, come quello napoletano; è presente infatti nella parola “Napulə” ma presenta vari limiti che vanno dall’assenza sulla tastiera del computer alle difficoltà che si possono avere nel pronunciarlo. L’alternativa, già proposta in passato, è stata menzionata dalla sociolinguista Vera Gheno ed ha generato un dibattito ridicolo, partito da Mattia Feltri, che in un articolo giornalistico intitolato “Allarmi siam fascistə” del 25/07/2020 su “La Stampa” ha deriso proposta, che secondo lui sarebbe stata fatta anche dall’Accademia della Crusca. L’epilogo purtroppo è altrettanto triste, poiché l’Accademia della Crusca, ha risposto dissociandosi solo dalla possibile soluzione proposta da Vera Gheno e non dalle parole di Feltri, chiarendo inoltre che la sociolinguista non collabora con loro da tempo. 

“Cosa si evince da ciò?” Innanzitutto, appare chiara la profonda ignoranza e superficialità da parte di alcuni giornalisti, che nei loro articoli dimostrano impegno solo nel tentativo di rimanere fedeli a fatti storici, ignorando la complessità della questione identitaria, e spesso togliendo dignità ai protagonisti dei suddetti articoli. In secondo luogo, la difficoltà che sta nel combattere una battaglia che sia intersezionale nei confronti delle discriminazioni, e quindi non portata avanti da una singola minoranza ma da tutte le minoranze vittime di soprusi, costituisce un grave problema. A sostegno della prima argomentazione costituisce un esempio di fondamentale importanza l’omicidio di Paola Maria Gaglione per mano di suo fratello, che ha prima inseguito lei ed il suo compagno Ciro in motorino e poi speronato il mezzo, causando la caduta con conseguente morte della sorella. Fin qui i mass media si sono tenuti fedeli alla narrazione se non fosse per un unico e fondamentale fattore: Ciro è un ragazzo trans e le maggiori testate giornalistiche italiane hanno riportato il suo dead name, riferendosi a lui con pronomi femminili e definendo quella tra i due fidanzati, una relazione omosessuale. L’articolo è stato cambiato ma l’errore ha tolto dignità a Ciro, alla sua relazione con Paola e ha anche avallato la diffusione di una notizia errata perché Paola Maria Gaglione non è morta perché suo fratello non accettava la sua relazione con “un’altra donna” ma è morta di transfobia, uccisa da suo fratello e da tutti coloro che hanno annullato la sua identità di genere e quella del compagno. 

Riguardo l’intersezionalità delle lotte alle discriminazioni, in riferimento all’esempio precedente, nei giorni seguenti la morte di Paola, l’associazione italiana “ArciLesbica” che dovrebbe rappresentare le donne lesbiche italiane, tramite la propria pagina Facebook ha diffuso post in cui si parlava di Ciro al femminile, rifiutandosi di riconoscerne la reale identità di genere. L’attivista e avvocata Cathy La Torre, nel suo libro “Nessuna causa è persa” ha scritto “intersezionale non è pensarci solo come singoli, ma come parte di un sistema collettivo che ci fa lottare anche contro le ingiustizie che non ci colpiscono direttamente”. Va perciò concepita una battaglia intersezionale nei confronti dei soprusi sia perché questi sono sempre ingiusti sia al fine di non far sentire qualcuno tutelato solo dal gruppo sociale al quale appartiene, ma dall’intera comunità. 

L’uguaglianza sociale è molto lontana dal suo raggiungimento effettivo ed unire le forze per accorciare i tempi di un processo tanto complesso rappresenta una necessità, ora più che mai.

di Vittoria Sassi

Foto di Jasmin Sessler da Pixabay


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