La scuola che vogliamo

Scritto da il 8 Ottobre 2021

Dimmi il nome con cui ti chiamano tuo padre e tua madre e quelli della tua città e coloro che vivono intorno. Nessuno degli uomini è senza nome, né il nobile né il miserabile, una volta che è nato; a tutti lo impongono i genitori, quando li mettono al mondo.” Omero, Odissea, VIII 550. Con questa citazione Alessandro d’Avenia apre il suo romanzo “L’Appello” centrandolo sulla storia di un professore non vedente, chiamato ad insegnare in una classe problematica, da lui stesso definita “una metafora sonora che canta una infelicità corale, a cui ciascuno partecipa con un timbro inconfondibile.. E Omero, così si chiama il professore, che prima di tutto vuole conoscere i suoi ragazzi, apre la sua prima lezione con l’appello, enfatizzandolo e trasformandolo in un mezzo per capire a fondo i loro sogni, le loro paure, i loro desideri e le loro difficoltà. Un rito quotidiano attraverso cui l’imparare e l’insegnare diventano l’occasione per una relazione dinamica e virtuosa.

Potrebbe esser questa la direzione da seguire per rivitalizzare la scuola? Piero Calamandrei nel suo scritto “ Per la Scuola”, redatto negli anni dell’elaborazione e firma della Costituzione, le assegna un ruolo chiave nel passaggio dalla democrazia formale a quella sostanziale, con la specifica funzione di innalzare nella società i livelli di cultura e assicurare a tutti pari dignità. In coerenza a tali principi, afferma che la scuola va difesa, salvaguardata in quelli che sono i suoi valori originari. E quindi non necessita di grandi rivoluzioni

Da troppo tempo inversioni di tendenza, scelte politiche hanno offuscato questa vocazione, creando i presupposti per un progressivo scollamento tra aspettative, dichiarazione di intenti, e pratica istituzionale. La pandemia ha fatto emergere con forza queste contraddizioni e la Dad ne è stata la cassa di risonanza. Uno dei motivi del fallimento della didattica a distanza lo ha provocato proprio la riproposizione, anche in questa circostanza, del modello di insegnamento frontale, focalizzato sul recupero degli apprendimenti formali, mediante l’utilizzo di criteri valutativi di controllo. Il marginale interesse per la sofferenza e il disagio psichico che i ragazzi andavano via via manifestando , ha acuito la loro apatia, la rabbia e la scarsa motivazione per lo studio.

A settembre la scuola ha riaperto i battenti, inaugurando l’anno scolastico 2021/2022, all’insegna, come avviene ormai da due anni a questa parte, dell’emergenza Covid.

Tutto parrebbe procedere nel rispetto delle procedure di prevenzione, utili a scongiurare i rischi di nuovi contagi. Tuttavia, a ben vedere, quelle modifiche strutturali, come ad esempio l’adeguamento del sistema dei trasporti o la revisione dei criteri di formazione delle classi, non sembrerebbero godere del diritto di priorità. Questioni di ordine materiale, è vero, che rappresentano però vincoli cruciali, imprescindibili per la fruizione del diritto allo studio che la Dad non ha certo favorito.

La promessa del ministro Bianchi di non tornare alla scuola di prima è supportata da un coerente piano di rinnovamento e di resilienza nazionale, i fondi stanziati sono ragguardevoli, al punto da sembrare in linea con l’intenzione di trasformare in procedure concrete la messa in sicurezza degli edifici scolastici, l’acquisto di dotazioni tecnologiche idonee e la formazione dei docenti per l’acquisizione di metodi efficaci di insegnamento con procedure di valutazione più innovative e partecipate.

Ma tutto questo non basta a sostenere il rinnovamento, occorre infatti che la scuola sia sospinta da una solida e motivata volontà di disconnessione da modelli educativi autoreferenziali, ormai disgiunti dagli studenti e dalla società. Tutti noi condividiamo la necessità della cosiddetta cassetta degli attrezzi degli insegnanti , determinata dalla formazione iniziale, ma l’insegnamento, per sua natura, esige un ulteriore scatto in avanti, dato dalla capacità professionale di fornire risposte puntuali alle situazioni sempre nuove e impreviste che la scuola pone . Servono competenze arricchite da una sorta di training in the job, rette dalla personale ricerca di senso che ogni insegnante deve ricercare nello svolgimento del proprio lavoro, unite alla capacitò di mettersi in discussione per ripartire, sempre, con rinnovate energie. La scuola deve recuperare la sua “dimensione civica” che a ben vedere implica anche quella etica, il che comporta il riconoscimento del valore di ogni singolo studente, ed il recupero della partecipazione e dell’ascolto.

Non è un mistero che molti ragazzi di una fascia d’età compresa fra i 12 e i 16 anni abbia dichiarato di aver vissuto i giorni del lockdown, smarriti in una selva oscura, come Dante, senza più speranze, senza obiettivi e rammaricati di trascorrere il periodo più bello della loro vita da soli, chiusi in una stanza.

La riapertura delle scuole significa ritorno alla normalità, ma questa esige ascolto e accoglienza, solo così i nostri ragazzi potranno essere aiutati a riconquistare l’equilibrio e la serenità che mesi di confinamento ha loro negato. Non si tornerà più alla scuola di prima, a patto che si maturi la consapevolezza che ciò che le dà vita e la rende luogo di apprendimento è dato soprattutto dalle persone che la abitano e dalla loro volontà di migliorare e di percorrere strade sempre nuove che potenzino e valorizzino i diversi linguaggi, le diverse intelligenze, nell’ottica della scuola intesa come bene comune, luogo di crescita e di opportunità formativa.

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 


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